domenica 2 gennaio 2011

Nel parco sacro: le foreste casentinesi


Più che una foresta (o meglio, le foreste), il parco del Casentino dà l'impressione di costituire una grande comunità dove convivono in armonia svariate migliaia di alberi, poche migliaia di animali e qualche centinaio di esseri umani.

Forse il segreto di questa armonica convivenza sta tutto qui: nella scarsa presenza dell'uomo.

Se la realizzazione del progetto “parco” è recente - risale al 1990 - non è esagerato affermare che l'idea di un territorio nel quale l'elemento naturale fosse salvaguardato e seguito in maniera particolare ha quasi mille anni di vita.

Bisogna infatti tornare indietro nel tempo, fino alla data del 1020, per incontrare i monaci benedettini di Camaldoli i quali, dopo aver costruito una chiesetta e le celle dove pregare e riposare, prestarono le loro maggiori attenzioni al maestoso bosco di abeti e faggi che si innalzavano tutt'intorno.

E qualche decennio più tardi furono gli autori di alcune “regole di comportamento” (poi codificate e stampate nel 1520), che tuttora costituiscono la base di ogni manuale di tecnica forestale.

A distanza di tempo - circa due secoli -, e di spazio - una trentina di chilometri in linea d'aria -, un altro cenobio vide la luce all'interno della foresta casentinese: quello che poi diventerà il Santuario della Verna, voluto dallo stesso San Francesco che vi soggiornò più volte e lì ricevette le stimmate.

I due antichi, ma tuttora presenti, progenitori - i camaldolesi e i francescani - hanno dunque plasmato e caratterizzato quello che è poi diventato il Parco nazionale delle foreste casentinesi, un territorio di 37 mila ettari che si estende a cavallo dell'Appennino tosco-emiliano e tocca tre province: Arezzo, Firenze e Forlì.

Al centro abitato più consistente, Badia Prataglia, che conta un migliaio di abitanti, e a rare case o borgate affogate nel verde, fanno da contraltare le immense distese di abetine, faggete, castagneti.

Boschi abitati da cervi, caprioli, cinghiali, mufloni e, da qualche anno, di nuovo anche dai lupi. Se il sottobosco è punteggiato da funghi e dai tipici frutti selvatici dell'area mediterranea, lassù, al di sopra delle cime degli alberi, volteggiano un paio di coppie di aquile reali, il falco, la poiana, il gufo. E se nei turbinosi corsi d'acqua sguazzano trote, gamberi, granchi e anche tritoni, i margini dei sentieri sono impreziositi, a seconda della stagione, da viole, mammole, pervinche, fiordalisi…

Insomma, un parco dalle mille attrattive e dalle caratteristiche più eterogenee.

Nella zona di Capo d'Arno, sulle pendici del Monte Falterona, si apre l'ormai inaridito Lago degl'Idoli, così chiamato perché nel 1838 furono casualmente trovate centinaia e centinaia di piccole sculture in bronzo di epoca etrusca che ancora intrigano storici ed archeologi incapaci di dare una spiegazione plausibile alla straordinaria presenza di tanti oggetti di culto in un luogo così isolato e remoto.

Poco distante dall'Eremo di San Benedetto in Alpe - descritta anche da Dante nel XVI canto dell'Inferno - precipita la cascata dell'Acquacheta (che nome meno appropriato non poteva avere, dal momento che con i suoi settanta metri di dislivello non è certo silenziosa); c’è poi Campigna, con il suo settecentesco palazzo granducale che costituì la residenza di caccia dei Lorena.

Tutte località fortunatamente irraggiungibili in auto o anche in moto, ma da guadagnare lentamente con percorsi pedonali peraltro di irrisoria difficoltà .

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